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«6 ottobre 2023, l’ultimo giorno della nostra vita normale»: il racconto alla Dire di un anno nella “trappola” di Gaza

Cronaca«6 ottobre 2023, l’ultimo giorno della nostra vita normale»: il racconto alla Dire di un anno nella “trappola” di Gaza

ROMA – “Per noi palestinesi l’anniversario è stato ieri, il 6 ottobre: l’ultimo giorno della nostra vita normale. I 365 giorni successivi sono stati tutti uguali: svegliarsi e andare a dormire sempre con la sensazione di essere in trappola, coi bombardamenti che non sono mai finiti”. Jumana Shahine è nata nella Striscia di Gaza e con l’agenzia Dire descrive le sensazioni dell’anniversario del 7 ottobre, quando ebbe luogo l’attacco di commando di Hamas nel sud di Israele. Circa 1200 le vittime e 240 persone prese in ostaggio.

L’azione diede il via a una operazione militare sulla Striscia che ha provocato oltre 40mila morti, di cui 16.800 minori, e quasi 100mila feriti. La media è di 110 persone uccise al giorno, di cui una quarantina bambini. Incalcolabili i danni al territorio, dove è compromesso l’80% di edifici, strade e infrastrutture stando ai dati dell’Ufficio satellitare delle Nazioni Unite.

“Ieri- continua Shahine, una vita come coordinatrice per le emergenze- gran parte delle persone che conosco hanno condiviso sui social fotografie di come appariva Gaza e la loro vita prima del 7 ottobre, per ricordare al mondo che noi siamo fermi a quei giorni. Per me, e credo per molti altri, ha pesato molto di più l’anniversario di ieri rispetto a quello di oggi. Quanto a stamani, mi sono svegliata come ogni giorno; ho iniziato a scorrere le notizie per scoprire che niente è cambiato: ancora nuovi attacchi, roghi, uccisioni, feriti, sfollamenti e sofferenze”. Forse, “anche più dei giorni precedenti. Israele continua a cercare vendetta”.

Shahine ora si trova in Egitto: è una delle centomila residenti che sono riuscite a lasciare la Striscia. Parla di una vita “prima, durante e dopo il genocidio”: prima, coordinatrice per le emergenze per l’ong italiana Associazione di cooperazione e solidarietà (Asc). Poi, durante la guerra, quando ha “cercato di aiutare più persone possibile”. Infine, la scelta sofferta di rifugiarsi in Egitto. “Non c’è cosa peggiore che essere costretti a lasciare il proprio Paese ma ho dovuto farlo per mio marito e mia figlia” racconta Shahine. “Ma ho lasciato indietro mia madre, mio padre e tutta la mia famiglia. Continuo a dare assistenza ai profughi, per loro neanche in Egitto la vita è facile, ma io non riesco ad adattarmi a questa nuova realtà. Per arrivare qui le famiglie spendono tutti i risparmi”.

Oltre alle difficoltà economiche – c’è poco lavoro e chi specula sulla crisi, chiedendo affitti altissimi – si somma il fatto che il permesso di soggiorno per i profughi scade dopo 45 giorni. “Viviamo qui illegalmente ma le autorità egiziane lo consentono perché non ci sono altre opzioni” riferisce Shahine.
“Ma senza documenti non possiamo andare da nessuna parte. Non posso iscrivere mia figlia a scuola. Non possiamo fare niente tranne sentirci in colpa”.

Infatti, bisogna fare i conti con la propria coscienza: “E’ difficile da spiegare” dice l’operatrice umanitaria. “Provo un senso soffocante di depressione, frustrazione, rabbia, delusione, dolore e perdita. Ciò che più mi spezza è il pensiero che forse mi sentirei meglio se fossi rimasta a Gaza, vivendo il genocidio, aiutando la mia gente direttamente: almeno vivrei per un obiettivo. Solo tornare mi aiuterebbe”.

L’articolo «6 ottobre 2023, l’ultimo giorno della nostra vita normale»: il racconto alla Dire di un anno nella “trappola” di Gaza proviene da Agenzia Dire.

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